Alla ricerca di un linguaggio contemporaneo partendo dai maestri del passato, e del presente.
Tra le personalità che si sono mosse per un rinnovamento del linguaggio teatrale in epoca contemporanea spicca senza dubbio Antonin Artaud (1896 – 1948).
Antonin Artaud sosteneva che uno dei motivi che giustificavano la perdita di interesse verso il teatro da parte della società del suo tempo era il fatto che esso aveva smesso di rappresentarla. Il pubblico non riusciva più a riconoscersi nei miti raccontati sul palcoscenico. Occorreva quindi una rivoluzione.
L’idea di un nuovo teatro, partiva per Artaud dalla rottura con la dittatura della parola e del dialogo (e con essa anche dell’autoreferenzialità e dall’egocentrismo dell’uomo) a favore invece della pura messa in scena, concepita come l’incontro di più linguaggi: gesto, movimento, luce e parola[1].
Un teatro integrale basato più su ciò che fisicamente avviene in scena, e non solo su quello che viene detto. Sulla presenza degli attori, sulla loro espressività, su ciò che il pubblico vede e percepisce.
Artaud continua il suo discorso sul rinnovamento dello spettacolo giungendo alla teorizzazione del Teatro della Crudeltà, inteso come un’esperienza mistica e totalizzante, che ha come scopo quello di scuotere e scombinare lo spettatore ottenendone la partecipazione incondizionata e di conseguenza l’alterazione del suo essere e del suo approccio al mondo. Un teatro profondamente sconvolgente, come una operazione chirurgica, al termine della quale non si è più gli stessi di prima.
Un teatro insomma che non sia solo spettacolo, ma cura. Un teatro utile ed efficace.
Tale idea di messa in scena era già ben presente al tempo degli antichi greci, dai quali infatti, Artaud recupera il termine Catarsi, ovvero purificazione. Si va a teatro per migliorarsi.
Molti anni dopo anche un altro autore parlerà di Catarsi: l’artista belga Jan Fabre (1958), il quale identifica la Catarsi come strumento tramite cui far avvenire il miglioramento di sé nell’interprete sulla scena.
Secondo Jan Fabre, il primo a raggiungere il superamento dei propri limiti è l’attore, che lui chiama “Guerriero della bellezza”. L’attore è colui che porta sul palco le proprie battaglie di vita, mostrando al mondo le proprie debolezze, stranezze e difficoltà, sviscerandole senza vergogna.
La messa in scena di tale ricerca del miglioramento di se stesso porta chi lo guarda a desiderare quello sforzo e in qualche modo a ricercarlo nella sua vita privata.
Jan Fabre nasce prima come artista visivo e solo successivamente approda a teatro. I suoi lavori sono fortemente impregnati del suo background e molto spesso si sviluppano più come una installazione che come un vero e proprio spettacolo teatrale. Vedendo l’opera di Fabre si può avere un esempio di come gli insegnamenti di Artaud possano essere attualizzati, sia per quanto riguarda la carica emotiva e sconvolgente dei suoi spettacoli sia per la relazione quasi simbiotica raggiunta tra gli attori e gli altri elementi teatrali. In tutti i lavori del regista belga si nota infatti un certo occhio di riguardo per la composizione dei performer sulla scena, per le immagini che questi corpi si ritrovano a disegnare su quella tela grande e profonda costituita dal palcoscenico. Luci, attori, musiche, scenografia, atti scenici. La performance si sviluppa come un’opera totale, senza neanche la necessità di una drammaturgia lineare, che ha come scopo quello di risvegliare negli spettatori una forte mimesi. Un’immedesimazione con i sentimenti mostrati sulla scena ricorrendo anche a immagini molto forti e fuori dall’ordinario.
Prima di descrivere la nostra idea di linguaggio e delineare in sintesi i punti che stanno alla base del lavoro di ricerca della compagnia Seesaw Project, riteniamo necessario nominare un’altra fondamentale personalità dello spettacolo moderno: Pina Bausch (1940 – 2009).
I termini “Teatro-danza” e “Danzattore”, con i quali si identificano la sua poetica e i suoi interpreti, sono senz’altro un punto di partenza per spiegare la nostra idea di teatro.
Il “Teatro-danza” o “Tanztheater”, è un genere ibrido e ontologicamente indefinibile. Sicuramente si tratta di un connubio tra due forme di espressione e comunicazione: la danza e le tecniche teatrali. Tuttavia, la fusione non consiste in uno “spettacolo danzato”, né in una “coreografia di danza con l’aggiunta di elementi teatrali”[2], e neanche in quello che nello spettacolo moderno di matrice americana viene chiamato “Musical”.
L’obiettivo è quello di creare un’armonia completa tra tutti gli elementi che compongono lo spazio scenico. La partitura dei movimenti, il sentimento individuale che li genera e li ripete ogni volta sulla scena, la musica, cercata o composta ad hoc, la voce, che è subordinata al movimento e origine del movimento allo stesso tempo. Tutto ciò si fonde a elementi scenografici e di regia.
Oggi più che mai, nell’epoca dei social networks – delle immagini e dei video che in pochi secondi devo essere esaustivi –, il pensiero di questi autori ci sembra attualissimo. La danza ed il teatro appaiono come mezzi espressivi obsoleti, utili al solo unico scopo di intrattenere, senza smuovere realmente gli animi degli spettatori o intaccarne la sensibilità.
Serve un cambio di rotta, una scelta che in qualche modo continui il rinnovamento gridato e supplicato da Artaud!
Per quanto ci riguarda, la risposta è sempre la contaminazione.
Per essere di impatto allo spettatore e tornare ad avere quella funzione catartica a cui alludeva il drammaturgo francese, è necessario che lo spettacolo dal vivo sia sorretto da altri mezzi espressivi e da nuovi linguaggi. Ci piacerebbe aspirare allo sviluppo di un connubio (per noi imprescindibile) tra tutte le discipline artistiche – moderne e classiche – conosciute, come ad esempio la musica, il canto, le parole, la danza, il video etc. per giungere ad un linguaggio espressivo in cui il confine, le barriere, tra di esse, è del tutto eliminato. SUPERATO.
Non escludiamo, tra i linguaggi adoperati, anche i nuovi mezzi di comunicazione ai quali le orecchie (e gli occhi) dell’uomo di oggi sono più abituati. Da qui l’utilizzo dei social networks, visti come mezzo “di compromesso” per giungere all’uomo contemporaneo.
Sebbene per molti versi la nostra estetica si distacchi da quella di Fabre, per altri ci sentiamo affini nella ricerca di una “bellezza visuale”. Un piacere che arriva al cuore, passando anche dagli occhi.
La storia dell’arte, come la storia della musica, gli autori, i libri, i film e gli spettacoli dal vivo in cui ci imbattiamo quotidianamente rientrano inevitabilmente nelle nostre creazioni. Queste si compongono come opere in cui l’immagine, il suono, il ritmo hanno una certa importanza di esistere, così come la posizione di un corpo nello spazio, così come il colore di un paio di lenzuola sulla scena.
Pur mantenendo la libertà di improvvisazione, che è sinonimo di spontaneità (verità), ci teniamo a costruire una partitura più definita possibile – la pausa prima di un urlo, il respiro prima di un canto, un gesto piuttosto di un altro –, nella creazione di un lavoro che passa dalla danza, al teatro (al concerto, al video…) senza soluzione di continuità e che aspira ad essere un proseguimento delle lezioni lasciateci dai molti maestri del passato che, come noi, hanno sentito il bisogno di un rinnovamento in un settore da loro molto amato, ma che generava anche molte insoddisfazioni.
Se con Artaud e Fabre condividiamo l’idea di una messa in scena “Crudele” nel senso di non “rassicurante” o “indulgente”, di Pina Bausch amiamo la matrice coreografica. Poniamo al centro della creazione il gesto e la sua espressività, e da esso generiamo la coreografia (o partitura danzata, che dir si voglia), la quale può essere ben fissata, o libera di subire variazioni in basi alle sensazioni scaturite in quel dato momento sul palco. Rifiutiamo il gesto tecnicamente impeccabile se privo di contenuto emotivo[3].
Uno degli obiettivi è quello di ricercare sentimenti autentici e gesti carichi di energia profonda. Un altro è quello di comunicare l’incomunicabile, ossia veicolare messaggi per i quali a volte la parola non basta.
Dice Pina Bausch:
“Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti. Ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che cosa fare. A questo punto comincia la danza, e per motivi del tutto diversi dalla vanità. Non per dimostrare che i danzatori sanno fare qualcosa che uno spettatore non sa fare. Si deve trovare un linguaggio—con parole, con immagini, atmosfere—che faccia intuire qualcosa che esiste in noi da sempre.”
Qualcuno ha descritto l’opera di Pina Bausch come un’arte totale che fonde la danza moderna e gli elementi recitativi. A noi questa espressione ci sembra insufficiente. Per lei come per noi.
Ci piace pensare di aspirare a tradurre con il gesto e la messa in scena le necessità umane, che nascono dalla relazione quotidiana con i propri simili e che fondano la società nella quale siamo immersi e dalla quale prendiamo spunto per le nostre creazioni.
Il teatro è necessario alla vita perché è il racconto della vita stessa, la sua descrizione e la sua analisi. Necessaria per porsi domande fertili e, forse, capirci qualcosa in più.
~ Written by Giuseppe Claudio Insalaco – Seesaw Project. ~
[1] «Teatro della crudeltà», in Dizionario dello spettacolo del ‘900, a cura di Felice Cappa e Piero Gelli. Milano, Baldini e Castoldi, 1998
[2] «Pina Bausch e il Tanztheater, il linguaggio senza parole», di Chiara Bozzi. Pubblicato 07/05/2019 su http://www.losbuffo.com/2019/05/07/pina-bausch-e-il-tanztheater-il-linguaggio-senza-parole/#:~:text=Il%20teatro%20danza%2C%20o%20Tanztheater,danza%20e%20le%20tecniche%20teatrali.
[3] «Pina Bausch e il Tanztheater, il linguaggio senza parole», di Chiara Bozzi. Pubblicato 07/05/2019 su http://www.losbuffo.com/2019/05/07/pina-bausch-e-il-tanztheater-il-linguaggio-senza-parole/#:~:text=Il%20teatro%20danza%2C%20o%20Tanztheater,danza%20e%20le%20tecniche%20teatrali.